Home > Interviste > La violenza assistita contro i bambini. Intervista all’Avv. Cristiana Panseri Marini

Sovente si definiscono l’abuso e il maltrattamento all’infanzia ed all’adolescenza come “fenomeni sommersi” per via delle notevoli difficoltà che sussistono nell’individuare le situazioni in cui concretamente avvengono. La violenza assistita intrafamiliare rappresenta in quest’ambito un fenomeno che, se possibile, è ancora più sommerso, non solo perché difficile da individuare data la mancanza di conseguenze fisicamente tangibili e visibili, ma anche per l’indefinitezza giuridica della fattispecie di reato che, più che altro, rimane ancorata ad eventuali reati contro la persona cagionati durante litigi o vessazioni tra genitori.
Tuttavia, la considerevole mole di separazioni conflittuali registrata in Italia negli ultimi decenni, connotata spesso da dispute per la custodia dei figli o da contenziosi patrimoniali, espone con sempre maggiore frequenza i figli minorenni ai rischi di questa specifica forma di violenza psicologica. A rendere ancora più complicato e complesso il quadro, sta il fatto che in moltissimi casi non vi è alcuna volontà dei genitori confliggenti di cagionare danno al figlio che assiste ai litigi. Inoltre, può risultare non del tutto agevole attribuire e distribuire le responsabilità genitoriali, esistendo un’ampia gamma di situazioni, da quelle in cui è abbastanza chiaro il ruolo vessatorio di uno contro l’altro a quelle in cui i coniugi appaiono su posizioni equiparabili. Un ulteriore dato di complessità è dato dalla valutazione delle conseguenze sullo sviluppo dei figli dell’esposizione a questa forma di violenza, rispetto alle quali mancano nel nostro Paese ricerche longitudinali confrontabili.
Per discutere ed approfondire questa tematica abbiamo intervistato l’avv. Cristiania Panseri Marini che, nell’ambito dei propri studi criminologici ad indirizzo socio-psicologico, si è interessata dei reati e delle violenze intrafamilairi che coinvolgono figli minori. L’intervista, come le altre della rubrica Conloquia, vuole stimolare anche le domande degli operatori cui è principalmente rivolta, al fine di favorire anche ulteriori approfondimenti legati alle pratiche professionali quotidiane. (dott. Giovanni Lopez)

Intervista all’Avv. Crisitana Panseri Marini, Avvocato, Docente di diritto presso IPU – Istituto Superiore di Scienze Psicopedagogiche e Sociali (affiliato alla Facoltà di scienze dell’educazione dell’Università Pontificia Salesiana), Giudice Esperto presso il Tribunale di Sorveglianza di Firenze.

mariniAvv. Panseri Marini, le stime sui minorenni esposti a violenza domestica variano di Paese in Paese ed in Italia è persistita una sorta di negazione del problema, che istituzioni e società civile hanno a lungo a trattato come affare privato interno alle famiglie, piuttosto che come violazione di diritto. Quale può essere ad oggi l’ampiezza del fenomeno nel nostro Paese? Esiste un divario tra i casi noti e quelli sommersi?
E’ molto difficile poter stimare l’ampiezza del fenomeno riguardante i minorenni esposti a violenza domestica, poiché i maltrattamenti sono uno dei reati con il più alto tasso di “numero oscuro”, cioè di percentuale di casi che non vengono denunciati. Molto spesso le vittime non sporgono denuncia-querela a seguito delle violenze subite per una serie di motivi che vanno dalla vergogna, al senso di colpa, al timore di un’escalation della violenza e di ripercussioni sui figli.  Per conoscere meglio la portata del fenomeno molti paesi hanno svolto le cosiddette “indagini di vittimizzazione” condotte su campioni rappresentativi di donne attraverso interviste telefoniche e in alcuni casi anche mediante interviste faccia a faccia.

Quali comportamenti genitoriali agiti in presenza di figli minorenni possono congruamente essere ascritti alla tipologia della “violenza assistita”? La conflittualità tra genitori separandi o separati per l’affidamento e la custodia dei figli può rientrare in questa tipologia?
Per violenza assistita da minorenni in ambito familiare sono da intendersi tutti quei comportamenti che integrano la fattispecie del maltrattamento: atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale consumate all’interno della famiglia su figure di riferimento o altre figure affettivamente significative, adulte o minori. L’esperienza del minore può essere diretta, quando tali atti avvengono nel suo campo percettivo, o indiretta, quando il minorenne ne è a conoscenza e/o ne percepisce gli effetti.
La conflittualità genitoriale in ambito di separazione o divorzio può rientrare in questa tipologia quando si manifesta in un contesto di prevaricazione di un soggetto sul partner, attraverso atti che rivelano e mantengono una cronica disparità di potere tra le parti, come comportamenti reiterati di violenza verbale o fisica, anche se non grave, atteggiamenti svalutanti di un genitore nei confronti dell’altro, violenza economica o psicologica.

Considerando il fenomeno dal punto di vista vittimologico, è possibile tracciare un profilo orientativo del minore esposto al rischio di violenza domestica? Quali sono invece i profili genitoriali che favorisco l’innesco di questa dinamica?
La ricerca criminologica si è occupata di identificare i fattori favorenti il fenomeno sottolineandone l’estrema complessità. Per i minori vittime di maltrattamenti si sono rilevate correlazioni significative con la tenera età dei bambini, le condizioni di prematurità, disabilità o esiti di complicazioni al momento del parto, alcune caratteristiche del comportamento quali tediosità, pianto prolungato, particolare irrequietezza, difficoltà di alimentazione e persistente bisogno di cure. Riguardo i bambini più grandi, sono risultati rilevanti comportamenti che violino le norme della comunità o siano percepiti come tali. I profili genitoriali più significativi risultano essere per le madri un basso livello di autostima, interazioni con il bambino inappropriate o incongrue rispetto alla fase evolutiva, dipendenza; per gli uomini irritabilità, impulsività, problemi di potere, controllo e manipolazione del partner, comportamenti svalutanti ed intrusivi.

Alcuni dati Istat del 2006 rilevano come il 62% delle donne che hanno denunciato violenze subite, abbia dichiarato la presenza dei figli durante uno o più episodi . Studi internazionali evidenziano inoltre che, dopo la separazione dei genitori, nei figli, specie se adolescenti, aumentano i comportamenti violenti verso madri e fratelli, agendo una sorta di sostituzione del ruolo paterno. Quanto questa tipologia di dinamica è riferibile al nostro contesto nazionale e come andrebbe prevenuta o trattata?
Alcuni dati Istat del 2006 rilevano come il 62% delle donne che hanno denunciato violenze subite, abbia dichiarato la presenza dei figli durante uno o più episodi . Studi internazionali evidenziano inoltre che, dopo la separazione dei genitori, nei figli, specie se adolescenti, aumentano i comportamenti violenti verso madri e fratelli, agendo una sorta di sostituzione del ruolo paterno. Quanto questa tipologia di dinamica è riferibile al nostro contesto nazionale e come andrebbe prevenuta o trattata.

Secondo uno studio prospettico condotto negli USA e pubblicato nel 2011 , solo bambini esposti sia a maltrattamento infantile che a violenza domestica (doppia esposizione), corrono seriamente il rischio di sviluppare comportamenti disadattivi in adolescenza. Esiste dunque un’interazione tra i due fenomeni? Che differenza si può rilevare tra gli esiti evolutivi di un bambino vittima di una singola esposizione ed uno esposto sia a maltrattamento che a violenza domestica?
I risultati del “Lehigh Longitudinal Study” confermano una dato abbastanza intuitivo, ossia che l’esposizione a più fattori di rischio di sviluppare comportamenti disadattavi in adolescenza aumenta la probabilità degli esiti. Lo studio è meno chiaro riguardo all’incidenza e al tipo di problemi psicosociali dei giovani adulti relativamente ai quali la doppia esposizione avrebbe rilevanza.
Data la complessità del problema, andrebbero valutate anche altre ipotesi di sovrapposizione di rischi, ad esempio ambientali, quali uso di sostanze da parte dei genitori, disoccupazione, vivere in quartieri violenti, per meglio comprendere la gamma e le interazioni di esperienze produttive di esiti problematici.

È possibile individuare degli indicatori comportamentali tipici di bambini ed adolescenti esposti a violenza domestica? Oppure un simile esercizio rischierebbe di dar adito ad una sorta di “caccia alle streghe”? In generale quali sono le probabili conseguenze di questo fenomeno sul medio e lungo termine dello sviluppo psico-sociale di un bambino o di un ragazzo?
E’ possibile individuale comportamenti ricorrenti in minori esposti a violenza domestica, ma è necessario procedere con cautela perché molti indicatori risultano aspecifici essendo riconducibili a diversi traumi e disagi evolutivi e affettivi. I problemi più spesso ricorrenti in vittime di tale violenza risultano: depressione, ansia, inquietudine, aggressività, crudeltà verso animali, tendenza all’atto, ipermaturità, minori competenze sociali, disturbi del sonno, incubi, enuresi notturna, comportamenti regressivi, auto lesivi, bassa autostima, sensi di colpa etc. Alcuni minori presentano comportamenti controllanti nei confronti della madre come espressione di attaccamento disorganizzato o possono sviluppare comportamenti adultizzati di accudimento verso la madre e i fratelli, con un’inversione dei ruoli, o cercare di districarsi nella situazione attraverso bugie e giochi di alleanze con i genitori. A lungo termine si possono riscontrare comportamenti devianti, aggressivi, fughe da casa, violenze, incapacità di relazionarsi con gli altri e talvolta suicidi.

In passato si è ritenuto che la violenza domestica contro le donne e la conseguente violenza assistita dai figli, fosse prevalentemente un problema dei ceti sociali più bassi e svantaggiati. Tuttavia, diversi casi di cronaca riferiscono casi di violenza domestica anche nei ceti più agiati. In che misura, dunque, la condizione socio-economica delle famiglie incide sul fenomeno?
Certamente il fenomeno della violenza domestica non può essere con?nato a situazioni di marginalità economica e sociale o alla mancanza di cultura e di istruzione, considerando che 1/3 delle vittime e degli autori ha il diploma di scuola media superiore o la laurea. La condizione socio economica delle famiglie maltrattanti appare dunque un dato che rileva, semmai, quando lo stato di disoccupazione o di occupazione comporta stress con il rischio di scaricare la frustrazione sui soggetti più deboli. Risulta importante anche l’indipendenza economica della donna, la capacità a mantenere un lavoro e un’autonomia nonostante i condizionamenti e le pressioni del partner all’isolamento, che mirano ad escludere la moglie dal contesto sociale fino a giungere a farle perdere importanti punti di riferimento e di confronto. Infine, va ricordato che famiglie maltrattanti appartenenti ai ceti sociali più elevati sono meno permeabili a controlli ed interventi esterni: “le case dei ricchi hanno muri più spessi”.

Il “Delitto di abuso di mezzi di correzione e disciplina” viene oggi considerato dalla dottrina unanime, come un residuo del passato, una consacrazione legislativa di una sopravvivenza medievale che riconosceva ai soggetti preposti, il diritto all’utilizzo della violenza fisica a scopo educativo. Nella Relazione al codice Rocco si afferma, però, che le mere percosse non sono sufficienti ad integrare la fattispecie, essendo necessario che dal fatto derivi “il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente ”. Da una simile lettura non potrebbe scaturire il pericolo di una legittimazione implicita dell’uso di violenza in famiglia?
La formulazione dell’art. 571 c.p. risente certamente della cultura dell’epoca, non essendo mutato il testo della norma dal 1930, tuttavia il lavoro interpretativo della giurisprudenza, qualificato dalle norme in tema di diritto di famiglia e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino, ha permesso di dare nuovo significato al termine “correzione” che va inteso come sinonimo di “educazione”. Pertanto non può più ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, sia pure distortamente finalizzato a scopi ritenuti educativi, “potendosi tollerare, eccezionalmente e in casi estremi, solo una vis modicissima che sia compatibile con la nozione di «correzione» di cui si è detto”. E’ dunque la nozione di abuso che guida l’interprete laddove ritiene sussistere la fattispecie dell’art. 571 c.p. quando l’uso in funzione educativa di mezzi astrattamente leciti, di natura fisica, psicologica o morale sconfina nell’abuso, sia in ragione dell’arbitrarietà o intempestività della sua applicazione, sia in ragione dell’eccesso nella misura (Cassazione penale, Sez. V, sent. n. 2100/2010.

Nel codice italiano la violenza assistita non costituisce di per sé un illecito penale, rimanendo riferita al reato di maltrattamento in famiglia compiuto con violenza fisica sul coniuge e con violenza psicologica sul minore . Questa cornice normativa può contribuire alla sottovalutazione quantitativa e qualitativa del fenomeno, nonché ostacolarne la piena presa di coscienza giuridica e sociale?
Di certo il fatto che questa forma di maltrattamento dipenda dal preliminare riconoscimento della violenza intrafamiliare diretta non aiuta a rilevare precocemente il fenomeno né ad intervenire con adeguate protezioni e trattamenti. E’ importante, inoltre, saper distinguere le situazioni conflittuali da quelle di maltrattamento vero e proprio, evitando di identificare come semplici litigi e di sottovalutare situazioni nelle quali avvengono veri e propri maltrattamenti che vanno al più presto interrotti.

Quali strumenti e percorsi potrebbero favorire l’attuazione di un piano operativo volto ad innalzare il livello di percezione del problema e dunque, l’intervento di prevenzione e contrasto?
Credo sia necessario prestare estrema attenzione a questo fenomeno sociale, riconoscendo innanzitutto che i maltrattamenti sono un reato molto grave che va socialmente e giuridicamente sanzionato. E’ importante anche organizzare risposte ed interventi volti alla prevenzione, sì da bloccare la violenza sin dal suo nascere, agendo a livello di percezione sui ragazzi, sui bambini, insegnando loro il rispetto, la capacità di riconoscere le emozioni, anche negative, ed imparando a gestirle anziché agirle sugli altri. E’ evidente la necessità di un generale sforzo educativo e culturale che coinvolga la famiglia, la scuola e tutta la società, eliminando così la paura vissuta da molte vittime di parlare e chiedere aiuto nel timore di sentirsi giudicare e sole.


Letture consigliate:

– BALDRY A.C., “Dai maltrattamenti all’omicidio. La valutazione del rischio di recidiva e dell’uxoricidio”, Franco Angeli, 4° edizione, 2013;
– BALDRY A.C., ROIA F., “Strategie efficaci per il contrasto ai maltrattamenti e allo stalking. Aspetti giuridici e criminologici”, Franco Angeli, 2010;
– CIRILLO S., “Cattivi genitori. Prevenire e curare gli abusi all’infanzia“, Raffaello C

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